Non dormire, ci sono serpenti. Ovvero, buona notte.

Posted on 29 giugno 2009

8


Il titolo di questo post è anche il titolo di un libro. “Don’t sleep, there are snakes”. Ma è soprattutto il modo che un popolo dell’Amazzonia ha per darsi la buona notte: “non dormire, ci sono serpenti”.

Serpentello

Serpentello

Una delle caratteristiche peculiari degli indio Pirahã, difatti, è l’incapacità di esprimere linguisticamente qualche cosa che vada al di là dell’esperienza personale. Un augurio (anche se di buona notte) è un concetto troppo astratto, per loro. Traduco da http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/books/reviews/dont-sleep-there-are-snakes-by-daniel-everett-1017101.html:

Gli indios Pirahã dell’Amazzonia sono un popolo molto peculiare. Sono in meno di 400 e non possiedono miti, rituali né storia. Il loro linguaggio non è correlato a nessun’altra lingua attualmente utilizzata. Può essere fischiato, cantato, mormorato oppure parlato. Non possiede parole per definire i numeri, i colori, la destra o la sinistra, né per fratello o sorella.

I Pirahã non dormono mai per più di un paio d’ore e parlano per la maggior parte della notte. Vivono come cacciatori-raccoglitori in villaggi a 50 miglia dal fiume Maici, nelle profondità della foresta amazonica. Hanno numerosi contatti con i commercianti del fiume e altri estranei ma non mostrano inclinazione a modificare il proprio modo di vivere. Le loro peculiarità hanno causato un grande trambusto nel mondo accademico. Buona parte dell’eccitazione si basa sull’assenza di costruzioni “ricorsive” nella loro lingua. I Pirahã non hanno modo di coniare frasi lunghe come “il ragazzo della sorella di John” o “il gatto che ha ucciso il topo che ha mangiato il malto”.

Questo contraddice le teorie linguistiche, largamente accettate, di Noam Chomsky. Secondo la teoria chomskyana gli esseri umani possiedono un set di geni, un istinto linguistico, che forza tutte le lingue ad adottare lo stesso modello ricorsivo. Qualche dissidente è sempre stato scettico a proposito dei geni grammaticali di Chomsky: dal loro punto di vista le caratteristiche comuni a più lingue non originano da geni ma semplicemente da bisogni culturali simili che lingue diverse devono soddisfare. Se le insolite necessità dei Pirahã permettono loro di farlo senza ricorsione, nonostante la loro dotazione genetica umana, in tal caso pare che i dissidenti abbiano avuto ragione.

Quasi tutto ciò che sappiamo dei Pirahã ci giunge da Daniel Everett. E’ lui ad aver fatto loro visita per primo nel 1977 come missionario con l’intenzione di imparare il loro linguaggio a sufficienza per tradurre il Nuovo Testamento. Trent’anni dopo egli non è più un cristiano, tantomeno un missionario, ma in compenso è chair di lingua e letteratura alla Illinois State University, nonché una specie di celebrità nel circuito internazionale letterario.

“Don’t Sleep, There Are Snakes” racconta la storia dei suoi ripetuti soggiorni presso i Pirahã. Narrato in stile episodico, il libro è destinato a diventare un classico dell’etnografia popolare. La vita nella giungla è aspra e difficile, sia per i missionari che per i nativi, ed Everett utilizza una litania di problemi per aiutarci a capire lo strano punto di vista dei Pirahã.

Everett ritiene che molto dei Pirahã sia spiegabile dai loro orizzonti letterari limitati. Non hanno spazio mentale per cose che siano al di fuori della propria esperienza. Ogni racconto espresso nella loro lingua deve essere marcato grammaticalmente come qualche cosa che essi abbiano sperimentato o che sia stato sperimentato da qualcuno che essi conoscono.

Questo non sarebbe mai possibile nel nostro mondo moderno, dove traffichiamo costantemente con informazioni che provvengono da fonti lontane, mentre funziona perfettamente in una comunità di piccoli villaggi dove tutti conoscono tutti. Everett ritiene che questo attaccamento all’esperienza immediata spieghi perché i Pirahã siano così poco propensi a imparare lezioni dagli stranieri.

Everett ha provato a insegnare ai Pirahã le basi dell’aritmetica. Questi erano sufficientemente volonterosi, poiché sapevano che i loro limiti con la matematica li metteva in difficoltà nei commerci con i commercianti del fiume. Eppure dopo qualche mese le lezioni vennero abbandonate. Nessun Pirahã riuscì ad andare più lontano di 1+1=2. Qualcuno potrebbe ritenere che i Pirahã siano svantaggiati dall’assenza di parole che riguardino i numeri. Ma Everett ci ricorda che molte persone con gli stessi vocabolari limitati non hanno avuto difficoltà ad imparare l’aritmetica. I Pirahã non sono incapaci di contare: scelgono di non farlo. Semplicemente non vedono il motivo per saltare attraverso cerchi di fuoco intellettuali che non siano correlati alla propria esperienza.

Detto questo, non è una sorpresa che i Pirahã siano a prova di missionario. Ad un certo momento, gli ospiti di Everett gli dissero semplicemente che lui sarebbe stato il benvenuto, se fosse restato, ma che non volevano più sentire parlare di Gesù. In seguito egli ritenne di aver ottenuto qualcosa quando scoprì che ripetevano la sua versione del vangelo di San Marco. Ma saltò fuori che a loro piaceva il solo brano relativo a Giovanni il Battista. “Wow, gli tagliarono la testa. Cantalo ancora”. Everett confessò che non c’è traccia di una sola conversione in più di 200 anni di missioni presso i Pirahã.

A quanto dice Everett, i Pirahã sono un popolo molto felice, addirittura compiaciuto. Loro pensano che il proprio modello di vita non possa essere migliorato, e probabilmente hanno ragione. Ma si teme per il loro futuro. Può darsi che si siano liberati dei missionari, ma ricevono sempre più ospiti: centinaia di accademici eccitati stanno scrivendo anche adesso richieste di sovvenzione per poter andare a verificare le sorprendenti affermazioni etnografiche di Everett. Speriamo che i Pirahã non vengano viziati da tutta questa attenzione.

Il testo è di David Papineau. Il grassetto è mio.

Se siete interessati a sentire un esempio di questa buffissima lingua, provate qui:
http://www.llc.ilstu.edu/dlevere/Audio/song.mov

http://www.independent.co.uk/arts-entertainment/books/reviews/dont-sleep-there-are-snakes-by-daniel-everett-1017101.htmlGli indios Pirahã dell’Amazzonia sono un popolo molto peculiare. Sono in meno di 400 e non hanno miti, rituali o storia. Il loro linguaggio non è correlato a nessun’altra lingua attualmente utilizzata. Può essere *whistled, sung, hummed or spoken*. Non ha parole per i numeri, i colori, la destra o la sinistra, né per fratello o sorella. I Pirahã non dormono mai per più di un paio d’ore e parlano per la maggior parte della notte. Vivono come cacciatori raccoglitori in villaggi a 50 miglia dal fiume Maici, nelle profondità della foresta amazonica. Hanno numerosi contatti con i commercianti del fiume e altri *outsiders* ma non mostrano inclinazione a cambiare il proprio modo di vivere. Le loro peculiarità hanno causato un grande *stir* nel mondo accademico. Buona parte dell’eccitazione si basa sull’assenza di costruzioni “ricorsive” nella loro lingua. I Pirahã non hanno modo di coniare frasi lunghe come “il ragazzo della sorella di John” o “il gatto che ha ucciso il gatto che ha mangiato *the malt*”. Questo contraddice le teorie linguistiche, largamente accettate, di Noam Chomsky. Secondo la teoria chomskyana, gli esseri umani hanno un set di geni, un istinto linguistico, che forza tutte le lingue nello stesso *mould* ricorsivo. Qualche *maverik” è sempre stato scettico a proposito dei geni grammaticali di Chomsky. Dal loro punto di vista, le caratteristiche comuni a più lingue non originano da geni ma semplicemente da bisogni culturali simili che lingue diverse devono soddisfare. Se le necessità insolite dei Pirahã permettono loro di farlo senza ricorsione, nonostante il loro *endowment* genetico umano, in tal caso pare che i *maverik* abbiano avuto ragione. Quasi tutto ciò che sappiamo dei Pirahã ci giunge da Daniel Everett. E’ lui ad aver fatto loro visita per primo nel 1977 come missionario con l’intenzione di imparare il loro linguaggio a sufficienza per tradurre il Nuovo Testamento. Trent’anni dopo non è più un cristiano, *let alone a missionary, but chair of languages, literatures and cultures at Illinois State University, and something of a celebrity on the international lecture circuit* “Don’t Sleep There Are Snakes” racconta la storia dei suoi ripetuti soggiorni presso i Pirahã. Narrato in stile episodico, il libro è destinato a diventare un classico dell’etnografia popolare. La vita nella giungla è *harsh and steamy*, sia per i missionari che per i nativi, ed Everett impiega *an understated litany of narrow scrapes* per aiutarci a capire il punto di vista *quirky* dei Pirahã. Everett ritiene che molto dei Pirahã sia spiegabile dai loro orizzonti letterari limitati. Non hanno spazio mentale per cose che siano al di fuori della propria esperienza. Ogni *report* nella loro lingua deve essere marcato grammaticalmente come qualche cosa che hanno sperimentato o che sia stato sperimentato da qualcuno che conoscono. Questo non sarebbe mai possibile nel nostro mondo moderno, dove *we trade* costantemente in informazioni che provvengono da fonti lontane, ma funzioona perfettamente in una comunità di piccoli villaggi dove tutti conoscono tutti. Everett ritiene che questo *committment* all’esperienza immediata spieghi perché i Pirahã siano così poco inclini di imparare lezioni dagli stranieri. Everett ha provato a insegnare ai Pirahã le basi dell’aritmetica. Questi erano sufficientemente volonterosi, poiché sapevano che i loro limiti con la matematica li metteva in difficoltà nei commerci con i commercianti del fiume. Eppure dopo qualche mese le lezioni vennero abbandonate. Nessun Pirahã riuscì ad andare più lontano di 1+1=2. Qualcuno potrebbe ritenere che i Pirahã siano *hampered* dall’assenza di parole che riguardino i numeri. Ma Everett ci ricorda che molte persone con gli stessi vocabolari limitati non hanno difficoltà ad imparare l’aritmetica. I Pirahã non sono incapaci di contare: scelgono di non farlo. Semplicemente non vedono il motivo per saltare attraverso *intellectual hoops” che non siano correlati alla propria esperienza. Dato questo, non è una sorpresa che i Pirahã siano a prova di missionario. Ad un certo momento, gli ospiti di Everett gli dissero semplicemente che lui sarebbe stato il benvenuto, se fosse restato, ma che non volevano più sentire parlare di Gesù. In seguito ritenne di aver ottenuto qualcosa, quando scoprì che ripetevano la sua versione del vangelo di San Marco. Ma saltò fuori che a loro piaceva il brano relativo a Giovanni il Battista. “Wow, gli tagliarono la testa. Raccontalo ancora”. Everett confessò che non c’è traccia di una sola conversione in più di 200 anni di missioni presso i Pirahã. A quanto dice Everett, i Pirahã sono un popolo molto felice, *even self-satisfied*. Loro pensano che il loro modello di vita non possa essere migliorato, e probabilmente hanno ragione. Ma si teme per il loro futuro. Può darsi che si siano liberati dei missionari, ma ricevono sempre più ospiti. Centinaia di accademici *high-powered* *will even now be writing grant applications to go and check Everett’s startling ethnographic claims*. Speriamo che i Pirahã non siano *spoiled* da tutta questa attenzione. David Papineau.